"Sotto il celo di Orune"  dipinto di Tomaso Pirrigheddu. Acrilico su tavola.
"Sotto il celo di Orune" dipinto di Tomaso Pirrigheddu. Acrilico su tavola.

I semi di Nurabella

Era venuto a casa il messo del sindaco. Con la stessa espressione con cui un carabiniere può comunicarti una disgrazia, mi aveva consegnato delle carte con lo stemma del Comune. Una marea di parole inutili per giustificare l’unica frase di sostanza: non potevo più portare le mie capre là dove avevano sempre pascolato. 

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Era terreno demaniale, e non era più a disposizione. Serviva ad altro.
A cosa serviva lo scoprimmo ben presto, io e gli altri allevatori del paese. Lo capimmo quando il terreno fu recintato e comparvero i primi cartelli, con nomi stranieri e numeri scritti in grosso col pennarello nero. Soprattutto ci rendemmo conto che la vita a Nurabella non sarebbe stata più la stessa, quando arrivarono le gru e le motoseghe. Rasero al suolo ogni vita verde, ammazzarono tutti gli animali che lì avevano riparo, spianarono le collinette e ci mostrarono cos’è la desolazione.

Passò un anno prima che comparissero le 43 mostruose pale eoliche che, da quel momento, sfregiarono il nostro orizzonte e ferirono per sempre i nostri occhi. Nella vallata, notte e giorno, si diffuse un ronzio che faceva impazzire il bestiame. Ma noi esseri umani fingevamo di non sentirlo. Perché se ci fossimo fermati ad ascoltarlo, ogni giro di pala sarebbe diventato una maledizione per chi aveva acconsentito a quell’orrore. E noi non eravamo abituati a maledire.

Il profumo del mirto non arrivò più alle mie finestre. Il cisto non aveva più spazio per fiorire, e il giallo dell’elicriso era sbiadito e ridotto a poche chiazze. Eppure io ero stata fortunata, perché la mia famiglia possedeva qualche ettaro di terra. Solo rocce e cardi, ma per le capre andava bene. Potevano sopravvivere, e io pure. A differenza di altri compaesani non fui costretta a chiudere l’azienda. Potevo continuare a produrre il mio formaggio e la ricotta, a vendere il latte fresco per i bambini a balia, a sentirmi libera di esistere.

Ma un giorno arrivò una raccomandata. Aprii la busta sapendo già che non conteneva niente di buono. No, non era qualcosa da pagare, un debito dimenticato, il fisco malevolo. No. Era un avviso di esproprio. Volevano la mia terra, gli serviva proprio quella. Gli servivano le mie pietre e il biancospino, e il sentiero che percorrevo ogni mattina per andare a mungere, e i miei quattro olivi con la roccia cava dell’ovile. “Parco eolico denominato Nurabella”, c’era scritto. E poi tanto altro, ma non riuscii a leggere il resto perché mi mancò il fiato e caddi a terra.

Scoprii il giorno dopo che non ero stata l’unica destinataria di quell’avviso di morte. Perché si trattava della nostra morte, sì. E non solo per fame.

In Comune ci dissero che non potevano farci niente: dovevamo rassegnarci, cambiare lavoro, magari andarcene. Ma noi non ne volevamo sapere. Cercammo avvocati, rovistammo mezzo mondo per trovare aiuto, per tirar fuori una legge che potesse proteggerci, che potesse fermare i predoni. Chiedemmo solidarietà ovunque. Fu inutile.

Il veleno mi mangiava l’anima, insieme alla disperazione. Il mio pezzetto di terra! Comprato dai miei nonni col lavoro di una vita, rubato da gente straniera e da chi l’aveva fatta entrare. E i miei ciliegi… avrebbero tagliato anche quelli? Al pensiero mi si strappava il cuore. E le capre? A chi potevo vendere le mie capre? Nessuno le avrebbe volute: gli altri allevatori erano nelle mie stesse condizioni. Forse l’unica soluzione era lasciarle libere perché scegliessero loro dove andare, lontane dall’inferno che si stava preparando. Forse sarebbero riuscite a sopravvivere, avrebbero trovato cibo in qualche altura lontana, sarebbero diventate selvatiche… Più ci pensavo e più cresceva lo scoramento. Non c’era alcuna speranza.

Finché arrivò lei. Non l’avevo mai vista prima, non so chi l’avesse chiamata. Dicevano venisse dalla Gallura, ma non ho mai capito il suo nome. La chiamavano solo zia, con quella zeta leggera tipica delle zone del nord.

La prima volta la vidi mentre si inerpicava su per la collinetta che porta alla chiesa, col volto nascosto da uno scialle scuro nonostante fosse già primavera inoltrata e tutto attorno fioriva. Piccola, un po’ curva ma col passo svelto, un sacchetto a tracolla dove ogni tanto infilava la mano per afferrare qualcosa che non riuscivo a definire. Piccoli semi? Polvere? Cos’era? Ne gettava manciate mentre passava, segnandosi e ruotando lentamente su se stessa.

Quando, giorni dopo, la vidi entrare dal mio cancelletto di legno, non mi passò neanche per la testa l’idea di fermarla. Entrò, semplicemente, come fosse anche lei la padrona. E forse lo era. Richiuse il cancello con cura, e io la guardai imboccare il sentiero appena accennato tra le rocce concave. Con un gesto zittì il mio cane che si apprestava ad abbaiarle contro. Salì in silenzio. Arrivata sul costone si girò dando le spalle al sole e cominciò il suo rito.

La osservai a lungo. Lei sapeva di non essere sola, ma fece finta di niente. Borbottava qualcosa, mentre raccoglieva polvere e minuzie dalla sua borsa e le spandeva attorno, come se stesse seminando. Brillava controluce quella polvere, e quando cadeva a terra era come se per un attimo si accendesse, come scintille che penetravano tra i sassi.

Per tre settimane zia percorse le nostre campagne, ripetendo quei gesti con una sacralità che impediva a chiunque di chiedergliene conto. C’era qualcosa di potente nella sua figura, come se avesse raccolto in sé le memorie di chi, in passato, sapeva come si allontana il maligno, come si difende la terra, come si preserva la stirpe.

Spargeva semi, cenere e parole, piantando forze antiche ormai ignote ai più. Sarebbero cresciute come piante custodi, invisibili guardiani figli di Terra Madre, dritti di fronte al male incarnato dalle pale.

Ma tutto questo lo capii dopo.

Esattamente quando, passato qualche tempo, arrivarono gli operai con le ruspe e cominciarono a recintare il terreno. Il mio terreno, che ora gli stranieri trattavano come cosa loro, come se fossero stati i loro antenati ad averlo comprato, dissodato, amato.

Mi resi conto subito che gli operai si muovevano con una lentezza insolita, con fatica, come impediti da pesi attaccati ai piedi o alle spalle. Si fermavano spesso appoggiandosi a un albero, quasi intontiti. Cominciarono subito anche gli incidenti ai macchinari, senza che alcuno si fosse avvicinato. A una ruspa si ruppe la benna; il braccio di una gru crollò rischiando di ammazzare qualcuno; le motoseghe si inceppavano a ogni tentativo. La recinzione si dissolse in pezzi di plastica marcia. La ricostruirono, ma il giorno dopo era di nuovo a terra, perché il suolo rigettava i piloni. Vennero i responsabili della ditta per verificare cosa stesse succedendo, ma non riuscirono a rimanere lì che per poche ore, poi fuggirono. In seguito scoprimmo che alcuni erano dovuti tornare d’urgenza al proprio Paese per motivi gravi di salute.

I lavori non andarono mai avanti. I macchinari rimasero lì per diversi mesi, poi qualcuno li portò via.

La recinzione, o meglio quel che ne restava, la rimossi io. E così fecero i miei compaesani, che come me avevano assistito alla rovina di chi aveva pensato di rovinarci.

Non tornarono più.

 

Maria Antonietta Pirigheddu
Lettura di Maria Grazia Demontis e Gianfranca Piras
Lo Teatrì ad Alghero - 24 maggio 2025

 

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